LA FERMEZZA DI FRONTE AL FASCISMO


Il fascismo, dopo aver soffocato ogni forma di espressione, si trovò di fronte un’ultima resistenza, che non riuscirà mai definitivamente ad annullare: l’influenza della Chiesa nel campo educativo. Fu su questo terreno che avvenne anche a Vedano lo scontro tra Chiesa e Fascismo. L’occasione fu fornita proprio dalla società sportiva cattolica, la “Viribus unitis”, ma colpendo la squadra di calcio di Don Luigi, si voleva in realtà ridimensionare globalmente la presenza dei cattolici, unica che ancora contendeva ai fascisti l’egemonia in Vedano. Come afferma un giovane di don Monza, dava insomma fastidio ai fascisti che “nessuno prima andasse in oratorio, mentre ora lui trascinasse tutti i giovani ed era stimato anche dagli avversari”. Come dava fastidio ai fascisti che entrambi i sacerdoti, don Monza e il parroco,  don De Maddalena, non accettassero di scendere a compromessi ed a collaborare.
Fu così che proprio per contrastare la “ Viribus unitis il 28 Maggio 1926 i fascisti costituirono una nuova squadra di calcio: l’Unione Sportiva Vedanese. Poiché erano però pochi i giovani che aderivano, essi passarono alle provocazioni, innescando un meccanismo di brutali violenze che descriveremo basandoci su un memoriale scritto da Don de Maddalena dal carcere e su altre numerose testimonianze oculari. Il 24 Aprile 1927 i fascisti della “ Vedanese ” tagliarono un paletto del loro campo sportivo, attribuendone la colpa ai cattolici e cogliendo da ciò il pretesto di invadere nello stesso giorno il campo della”Viribus Unitis”, la società dell’Oratorio. Testimonia un aderente della Viribus: “Arrivarono decisi a picchiarci, come poi fecero altre sere, quando uscivamo dalla casa di Don Luigi. Ma quella volta c’era lui, don Monza, che ci protesse dicendo:” Fermi! Fermi! Toccate me, ma non i miei giovani! Quella volta non ci toccarono”.
La sera del 30 Aprile, di fronte all’ennesima aggressione ai danni di 2 giovani, una folla di parenti e amici organizzarono una dimostrazione contro i picchiatori. Don Monza provvederà a far ritirare i giovani dell’Oratorio prima dell’intervento dei carabinieri: ciò non impedirà che, il primo Maggio, 8 di loro venissero arrestati, condotti nelle carceri di Varese e rilasciati dopo 2 giorni. Ma ormai gli avvenimenti stavano precipitando: il 2 Maggio con decreto prefettizio venne sciolta la società Viribus Unitis, il 16 Giugno venne lanciata una bomba contro la casa del Parroco. Ormai era chiaro : i fascisti volevano la testa dei 2 sacerdoti, dovevano andarsene “vivi o morti”, come affermarono alcuni testimoni.
La sera del 28 Giugno il fatto più drammatico: i fascisti locali inscenarono un finto attentato al vice-podestà Baroffio Mario, ferendolo ad un braccio con un colpo di pistola, ma cercando di attribuire la colpa ai giovani cattolici, che sarebbero stati aizzati dai 2 sacerdoti. Il giorno successivo scattarono gli arresti, circa una ventina, tutti contro gli oratoriani ed i cattolici.
Così una signora ricorda l’arresto del padre: “Era la festa di S. Pietro e Paolo. Per festeggiare, avevamo preparato il risotto ed il capretto, che rimasero lì sul tavolo, perché l’arresto avvenne alle dodici. Restò in carcere tre settimane”. E negli occhi disincantati di un fanciullo di 8 anni così si stamparono quegli avvenimenti: “Erano le 12 e 30, ero seduto sui gradini di casa mia a mangiare la zuppa: vidi passare 2 carabinieri con un giovane; mi ricordo che si fermò davanti a me per allacciarsi una scarpa. Dai gradini di casa mia, si vedeva l’altare della chiesa di S. Maurizio: Don Luigi stava battezzando, andai a curiosare, era attorniato da 2 carabinieri ed era tutto sudato. Non vide però i suoi giovani portati via in camion”. I 2 preti non furono arrestati subito, fu però intimato di allontanarsi da Vedano. Si rifugiarono presso sacerdoti amici, dove vennero arrestati qualche giorno dopo e tradotti nelle carceri dei Miogni a Varese.
Don Monza vi resterà dal 7 Luglio al 15 Novembre. Saranno poi prosciolti, ma sarà proibito loro di tornare a Vedano Olona, in quanto cittadini indesiderati.
Alla luce della drammaticità degli avvenimenti e della sofferenza che provocarono a Don Luigi, si apprezza il suo atteggiamento fermo e responsabile. Infatti difese senza titubanza il diritto all’educazione e l’esercizio delle libertà fondamentali  della Chiesa e dei suoi giovani; ma in tale difesa fu sempre equilibrato. Perse la pazienza solo quando venne sciolta la Viribus Unitis: allora spezzò in pubblico la bandiera della società. Subito si pentì però di quel gesto sconsiderato e scrisse una lettera di scuse al Parroco, in cui arrivava addirittura a proporre il proprio allontanamento da Vedano, pur di poter favorire la riconciliazione degli animi. Ed infatti quanto sommamente desiderava era la riconciliazione. Sono in parecchi ad attestarlo. C’è chi ricorda che diceva di reagire a quei fatti con la preghiera, aggiungendo: “State uniti e non spaventatevi! State calmi, perché i buoni alla fine  trionfano”. Un’ altra persona afferma: “Era forte di carattere, ma cercava soprattutto di conciliare, invitava a perdonare, non l’ho mai sentito pronunciare parole di astio e di vendetta”. Ed ancora: “Non pronunciò mai una parolaccia contro i fascisti, non ci aizzava, ma diceva di sopportare”. Ciò che amava era dunque la pace, capiva che la pace era il bene supremo anche in quella situazione. Non era una lezione nuova questa per i suoi ragazzi che testimoniano fin dai primi tempi di averlo sentito condannare la guerra come il peggiore dei mali. Ed in quei tempi non era quella vuota retorica, ma una scelta di campo ben precisa, mentre in Italia dilagava la violenza e si imponevano i miti della forza e della guerra. E Vedano, dove il 25 Giugno 1922 il generale Diaz, ministro della guerra, aveva inaugurato con enfasi il monumento ai 55 caduti della I Guerra Mondiale, subiva senz’altro anch’essa il fascino di quei miti. 
Comunque l’esperienza di coadiutore di Don Luigi a Vedano si concluse con l’arresto nell’estate del 1927. Ma anche nel carcere gli giunsero le manifestazioni d’affetto dei Vedansi, come si evince dalla commovente testimonianza della vicina di casa: “Poiché la madre di Don Luigi era malata, le autorità avevano concesso a mia madre il permesso di andarlo a trovare in carcere. Il mercoledì e il giovedì erano giorni di visita: la popolazione lo sapeva. Così, lungo il percorso che portava alla stazione, la gente usciva dalle case e riempiva le borse di mia madre di generi alimentari per Don Luigi, perché sapevano tutti che non era adeguatamente assistito”. Era questa ormai l’ultima forma di solidarietà concessa. Ma l’amarezza e la sofferenza di quei giorni, per una singolare coincidenza storica, dopo 10 anni saranno riscattate proprio qui a Vedano.
Il ritorno di Don Luigi a Vedano è strettamente connesso alla fondazione della prima Casa della Nostra Famiglia. Egli, dopo la dura esperienza del carcere ed una breve parentesi di pochi mesi trascorsi a Milano presso la Parrocchia di Santo Rosario, svolse il suo ministero sacerdotale a Saronno, presso, il Santuario di Nostra Signora dei Miracoli fino al 1936, anno in cui venne nominato Parroco a San Giovanni alla Castagna in Lecco. Fu a Saronno che cominciò a concepire il disegno di un’Opera che visibilizzasse lo spirito apostolico. Formata poi la prima piccola comunità di laiche disponibili a tale progetto (si chiameranno poi in seguito Piccole Apostole della Carità), avvertì l’esigenza di una Casa che le ospitasse. E’ nella ricerca di questa Casa che Don Luigi incontrò un vecchio amico, Don Ambrogio Trezzi che, già suo confessore durante il primo periodo vedanese, era diventato Parroco di Vedano, succedendo proprio a Don de Maddalena, dopo i fatti del 1927.
Ma lasciamo la parola direttamente a Don Ambrogio: “Un giorno in treno per Varese mi incontrai con Don Monza. Gli chiesi dove fosse diretto e mi rispose che andava a Biandronno a vedere una casa dove fosse possibile porre una piccola opera per alcune vocazioni femminili. Non lo lasciai proseguire; gli disse che a Vedano Olona avrebbe potuto vedere un posto ideale per l’inizio della sua Opera: un luogo denominato “il Lazzaretto”. Il terreno si poteva facilmente acquistare appartenendo ad alcuni miei amici. Gli proposi di andare senz’altro a vederlo, ma Don Luigi mi disse: “No, la proibizione di mettere piede in Vedano me lo impedisce e non voglio correre il rischio di tornare in prigione!” Pensai e ripensai: Don Luigi doveva assolutamente vedere la posizione del Lazzaretto dove io avevo sempre pensato alla creazione di qualche istituto religioso. Telefonai ad un autista e gli dissi di venire subito ai piedi del colle con un’automobile dalle tendine scorrevoli che nascondessero i viaggiatori: vi salimmo. Arrivati al sommo del colle, trovammo la posizione incantevole e adatta: Don Luigi ne fu entusiasta”. C’era però un primo ostacolo da rimuovere: la proibizione a Don Luigi di farsi vedere a Vadano. Fu ancora Don Trezzi a superare la difficoltà, ottenendo dal Questore di Varese la revoca dell’ingiusto provvedimento. Numerosi ancora furono gli atti concreti compiuti da Don Ambrogio in favore dell’Opera di Don Luigi: fu Don Ambrogio, che, unitamente a Don Luigi chiese ila costruzione, a spese del Comune di Vedano, della strada che conduce al Lazzaretto. Infine fu ancora Don Trezzi a collaborare con Don Luigi nel reperire fondi necessari alla costruzione della nuova struttura.
Questa sua azione culminò simbolicamente nella cerimonia della posa della prima pietra, presieduta proprio da Don Ambrogio il 29 agosto 1937, alla presenza di un centinaio di persone in maggioranza vedanesi attirati fin lassù dal loro Parroco.
Il 30 Settembre dell’anno successivo, Don Luigi accompagnava nella nuova casa le signorine Clara, Teresa e Tranquilla, che iniziavano così la loro vita comunitaria, dopo un primo periodo di 3 mesi trascorsi in un appartamento a Teglio, in Valtellina.
Ormai l’Opera di Don Luigi era una realtà: di fronte alla laicizzazione della società, don Monza riteneva che il metodo più efficace per annunciare Cristo fosse la costruzione di comunità che rivivessero lo spirito apostolico ed esercitassero la carità nel mondo. Ma per esercitare tale carità, occorreva che innanzitutto essa fosse vissuta tra i membri della comunità, che dovevano vivere “come un cuor solo ed un’anima sola”. Per poter penetrare più liberamente nella società i membri della comunità dovevano essere inoltre privi di segni che facessero pensare a religiosi. Da qui la necessità di laici consacrati a Dio, ma impegnati dentro il mondo. Il fine dell’Opera non era però innanzitutto l’agire, il fare, bensì un modo di essere, e precisamente: vivere come gli Apostoli in qualsiasi situazione. Per cui la comunità non nasceva con lo scopo di compiere un’opera particolare, ma secondo questo spirito e questa carità, doveva essere disponibile ad ogni opera possibile. Il metodo era quello di marciare nell’umiltà, come il granello evangelico che porta molto frutto.
I primi anni di vita della Casa di Vedano sono da inserire in questo contesto progettuale. Lo ricordò Don Luigi, quando commentando la posa della prima pietra disse: “Questa pietra è come un chicco di grano che mettiamo nella terra, ma, per fiorire, deve prima marcire”. In effetti la stessa casa, analogicamente, doveva marcire per fiorire. Ed i primi anni a Vedano furono quelli della maturazione lenta della comunità. Don Luigi non appariva preoccupato di affidare alle prime signorine un compito o un’opera particolare. Vi furono diverse forme attraverso cui venne esercitata la carità: ospitalità a malati e sacerdoti, a sfollati e ad ebrei in tempo di guerra; la responsabilità della Direzione di un Centro di raccolta di bambini, figli di detenuti o giustiziati politici, apertosi a Cugliate, nell’alto Varesotto. Poi si presentò l’occasione che permise di indirizzare verso un impegno specifico l’azione caritatevole delle Piccole Apostole. Così la descrive una Piccola Apostola: “Venne un giorno a visitare la Casa il prof. Giuseppe Vercelli, direttore dell’Istituto Neurologico di Milano. La visita era la conseguenza di colloqui, iniziati nel 1946, tra la superiore Clara Cucchi, il professore sunnominato e don Luigi. Si trattava di iniziare a raccogliere fanciulli di ambo i sessi, minorati psichici, per un loro recupero ed un loro inserimento nella normalità. In quei tempi l’adeguata sistemazione di fanciulli minorati psichici, che affluivano all’osservazione dell’Istituto neurologico era un problema che rimaneva insoluto, per mancanza di Istituti Medico - Pedagogici. La visita alla Casa entusiasmò il professore per la sua posizione e per l’ambiente sano e tranquillo: così il 28 Maggio 1946 vennero accolti i primi 2 bambini: Vera ed Umberto”.
In tal modo iniziò l’azione a favore dei fanciulli minorati psichici, che fu seguita da Don Luigi fino al 29 Settembre 1954, giorno della sua morte. Alla Casa di Vedano se ne sono aggiunte altre ed oggi tutti possono ammirare lo sviluppo della sua opera in Italia ed all’estero. Analizzando però il pensiero di Don Luigi, si può affermare che egli non accetterebbe di ridurre “La Nostra Famiglia” a semplice centro di riabilitazione dei disabili: quest’opera particolare è solo la modalità storica attraverso cui si realizza lo scopo ultimo, che resta quello di vivere ed agire come gli Apostoli, tenendo conto dei bisogni del proprio tempo, per far ritornare la società alla carità dei primi cristiani. Un’azione, che perseguita fino alla donazione della vita, è considerata santa dalla Chiesa. Non a caso il 30 Settembre 1987, l’Arcivescovo di Milano, Cardinale Carlo Maria Martini, decretò l’introduzione della Causa di Canonizzazione di Don Luigi Monza. E ancora viva è nella nostra memoria la beatificazione avvenuta il 30 aprile 2006, quando i cardinali Tettamanzi e Saraiva-Martins, a nome del Papa, hanno donato alla Chiesa questo beato sacerdote ambrosiano

Parrocchia S.Maurizio di Vedano Olona - email: vedanoolona@chiesadimilano.it
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